Nazionale

Dal dolore al cambiamento: scendere in campo contro la violenza di genere

La straziante vicenda di Giulia Cecchettin rimette al centro il ruolo delle agenzia formative: la famiglia, la scuola e lo sport. Parla Manuela Claysset

 

La morte di Giulia Cecchettin, uccisa da una ventina di coltellate dal suo ex ragazzo, Filippo Turetta, è stato l’ennesimo femminicidio dall’inizio dell’anno. Con “femminicidio” non ci si riferisce genericamente a tutti gli omicidi che abbiano come vittima una donna, ma a quei casi di violenza alla cui origine ci sia una dinamica di sopraffazione, controllo o possesso derivata dal ruolo di subordinazione rispetto agli uomini cui le donne vengono tradizionalmente relegate all’interno della società e nelle famiglie. Dall’inizio del 2023 al 13 novembre, secondo i dati del ministero dell’Interno, in Italia sono state uccise 102 donne, di cui 82 in ambito familiare e affettivo (in media una ogni quattro giorni) e 53, più della metà, dal partner o dall’ex partner.

"La violenza maschile contro le donne è quotidianità - afferma Manuela Claysset, reponsabile Politiche di genere e diritti Uisp - Non possiamo parlare di eventi straordinari, di episodi, ma di un fenomeno quotidiano che non conosce distinzioni sociali, territoriali, culturali, e che è la diretta conseguenza di una cultura patriarcale basata sul possesso e il controllo. Una cultura che deve cambiare attraverso un impegno ampio, trasversale e di lungo respiro. Certamente servono, e sono urgenti, leggi a tutela delle donne, così come condanne e pene certe per gli uomini che hanno commesso femminicidi e violenze, ma la sola repressione non basta. Occorre formare, educare, senza la paura di affrontare temi come sessualità, genere, diverse identità".

Ne ha parlato anche la giornlista Annalisa Camilli su L'essenziale"E' stata Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, a sorprendere tutti. Al termine di una fiaccolata, la ragazza di 24 anni, studentessa universitaria, ha preso la parola e ha fatto una cosa molto complicata: ha trasformato un dolore privato in una questione politica. Si è smarcata dal ruolo della vittima e ha assunto su di sé la responsabilità di un futuro cambiamento. “Filippo non è un mostro, un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece qui la responsabilità c’è”, ha detto con consapevolezza, lasciando tutti senza fiato". 

La responsabilità è della società che da millenni definisce i rapporti di potere e di forza tra i generi e nelle nostre comunità, quindi per intervenire è necessario lavorare sulla cultura che ci permea e che è alla base delle relazioni che si costruiscono, fin da giovanissimi. "Occorre dare strumenti alle centrali educative e formative della nostra società, in particolare scuola e famiglia senza dimenticare il mondo dello sport - prosegue Claysset - Chi ricopre ruoli educativi deve chiedere come stanno a ragazzi e ragazze, che troppo spesso sono chiamati a rispondere ad un modello sempre più competitivo, che richiede velocità, forza, performance. Questa richiesta di competitività non aiuta ad elaborare le sconfitte, ad accettare modelli diversi. Ragazzi e ragazze si confrontano ogni giorno con sè stessi e con la necessità di capire chi sono, cosa vogliono, spesso impreparati a riconoscere e gestire emozioni e sentimenti, il rapporto con l'altro, l’importanza delle differenze. Una competizione continua che rischia di promuovere modelli distorti e di discriminare chi non risponde a quei canoni. Credo che questa competitività possa promuovere sempre di più quel modello patriarcale e di idea del possesso che spesso è alla base delle relazioni tossiche".


Il pedagogista Daniele Novara su Avvenire analizza le radici della violenza maschile contro le donne: "La violenza contro le donne non ha matrici passionali o amorose: si tratta di brutalità allo stato puro, inadeguatezza totale a gestire le proprie reazioni emotive, volontà di possesso e di dominio assoluto, come se i corpi fossero una proprietà privata e potessero essere resi in schiavitù perpetua. Esiste un nesso molto stretto tra uomini violenti e un’educazione che, quando erano bambini, ha precluso la possibilità di litigare, impedendo loro di imparare a stare nelle contrarietà: non imparano ad ascoltare l’opinione degli altri; non imparano ad affrontare la divergenza; non imparano a tollerare un’opposizione alla propria volontà. E così non riescono a relazionarsi nelle situazioni critiche ed esplodono".

Cosa fare allora? E lo sport che ruolo può avere in questa battaglia per la libertà e i diritti? "Per promuovere una società più attenta e sensibile lo sport ricopre un ruolo fondamentale, proprio perché al suo centro c'è il corpo e possiamo educare, attraverso le attività sportive, a riconoscere, rispettare e valorizzare l'altro. Penso a percorsi di educazione ai sentimenti e alla sessualità da svolgere nelle scuole, coinvolgendo le famiglie. Percorsi educativi che devono tener conto dell’importanza della corporeità, dell’attività motoria e sportiva e di quanto sia necessario conoscere e riconoscere il linguaggio del corpo. Con particolare attenzione ai percorsi di educazione all'effettività che vanno tenuti da docenti preparati e formati su questi temi. Questo è ció che vogliamo sottolineare come Uisp - conclude Manuela Claysset - avvalendoci della nostra esperienza decennale, anche grazie a progetti come Differenze: un patrimonio che viene implementato ogni giorno sul territorio, da Comitati e Settori di attività Uisp che sviluppano e ampliano percorsi formativi ed approcci educativi, collaborando con la scuola e con diverse realtà associative ed istituzioni".

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